NEWSSTATI UNITI D’AMERICA L’Ufficio della fede della Casa Bianca e la libertà religiosa (Roberta Scarcella)
NEWSKAILASA Il guru induista e lo Stato inesistente (Ignazio Barbetta)
(6 maggio 2025)
A sentire la maggior parte dei commentatori che, tra carta stampata e televisione, si sono avvicendati ad esprimere giudizi sul pontificato di Papa Francesco, sembra quasi che si sia avviata una sorta di rincorsa a chi riesca a collezionare più critiche possibili. In un gioco al massacro, che accomuna progressisti e conservatori, laici ed ecclesiastici, vaticanisti e osservatori di politica internazionale. In netta controtendenza con il sentire della gente comune, che ricorda i comportamenti anticonvenzionali, rievoca la moderazione dei costumi e sottolinea la semplicità dei gesti, con i quali ha mostrato la capacità di sedere accanto ai diseredati della terra, per condividerne i sentimenti e accoglierne le richieste. Nei cuori dei fedeli è rimasta impressa l’immagine di una Chiesa in cui si è visto nitidamente il volto di Gesù, povera tra i poveri, e per i poveri, dentro le malattie e i disagi del mondo, ma distante dai poteri del mondo.
Non è casuale, quindi, la rappresentazione di Francesco come “il Papa del Popolo”, “il Papa della gente”, che sono espressioni che, in effetti, sintetizzano bene il suo operato, ma si prestano anche ad un’interpretazione equivoca del messaggio trasmesso. Sotto due aspetti, perché, per un verso, veicolano un approccio riduzionistico della forza teologica del suo insegnamento e, per l’altro, avvalorano l’idea semplicistica di un pontefice “populista”, ripiegato esclusivamente sul sentire popolare e, quindi, disattento agli aspetti istituzionali e inconsistente di fronte alle sfide politiche internazionali.
Ciò che ha costituito un merito indiscusso per l’uomo della strada si è rivelato, invece, un elemento di biasimo per analisti e interpreti, sotto i più disparati profili. E per sgombrare il campo da ogni equivoco è opportuno, preliminarmente, rammentare il costante richiamo di Bergoglio ad un popolarismo alternativo al populismo, ad una prospettiva aperta alla diversità e all’inclusione opposta ad un’altra identitaria e sovranista, alla distanza tra un “populismo irresponsabile”, fondato sull’interesse personale, il dominio economico e la brama di potere, e la vicinanza al popolo, imperniata sulla compassione e la misericordia (cfr. Fratelli tutti, nn. 159-161).
Tutto ciò non è semplice manifestazione di un modo di essere del Pontefice, quanto, piuttosto, il risultato di una precisa visione profetica, radicata in un orizzonte di chiara profondità teologica. Infatti, la formazione gesuitica e l’esperienza nella realtà latino-americana ha sostenuto Papa Francesco nella convinzione della necessità di una traduzione delle idee in fatti. Da qui, l’attenzione rivolta al singolo come sguardo della parte per il tutto, finalizzato ad un’effettiva opera di diakonía, per offrirsi come prossimo di ognuno. Ragion per cui diventa fondamentale ascoltare la disperazione degli sventurati, accompagnare nella quotidianità il destino dei poveri e degli emarginati, farsi carico delle pene dei più bisognosi.
Francesco non è la voce degli ultimi per una scelta umanitaria o per una particolare disposizione d’animo, ma, più profondamente, per il desiderio di condurre la Chiesa verso l’applicazione reale dei principi conciliari, rimasta incompiuta e realizzata solamente in uno stato superficiale. Questa motivazione, teologica, ha spinto in direzione di un rinnovamento spirituale della Chiesa, che ha avuto delle specifiche ripercussioni nell’azione intrapresa innanzitutto all’interno delle istituzioni ecclesiastiche.
È stata avanzata nei suoi confronti l’accusa di avere approntato un’organizzazione della Curia francescocentrica, per non dire quasi autocratica, quando, invece, si sarebbe dovuto applaudire ad un intervento diretto sulle logiche dell’assetto vaticano, finalmente depurato dall’ipertrofia dei poteri individuali, dalle ambizioni personali, dagli stili di vita più rispondenti a modelli secolari. Si spiegano, e si dovrebbero apprezzare, in questo senso lo sfoltimento degli incarichi amministrativi, l’esortazione, attraverso l’esempio diretto, alla sobrietà delle abitudini e, soprattutto, il riassetto dell’istituto bancario e degli enti economici.
Il Papa ha dovuto fare i conti con le correnti interne di carattere conservatore, che hanno tentato di ostacolare questi cambiamenti strutturali, ma hanno, al contempo, alimentato le critiche all’apertura ad innovazioni sostanziali, mascherate dietro la difesa del rispetto della tradizione ecclesiastica, ma denotanti, in realtà, la volontà di rifiutare il riconoscimento del valore della più estesa partecipazione, anche ai più alti livelli, al governo della Chiesa.
Per cercare di riaffermare, così, la supremazia della forma sulla sostanza e per mantenere inalterato lo status consolidato delle cose. Si intenderebbe, cioè, predicare sul piano teorico e affermare nei documenti ufficiali l’importanza della lezione dei padri conciliari, per reiterare, al contrario, nei fatti un atteggiamento di chiusura. Il messaggio di Bergoglio, che è andato in una direzione opposta, non è per niente demagogico o “rivoluzionario”, ma perfettamente attinente alla lezione del magistero. Qualcuno ha voluto ridimensionare il valore dottrinale del pontificato di Francesco, ma il coinvolgimento dei laici, l’apertura alle donne, l’abbraccio a chi si è sentito, ed è stato, emarginato, dalla società e dalla Chiesa sono stati, finalmente, la manifestazione reale di un insegnamento rimasto fino a questo momento sulla carta o nel mondo delle idee.
Si dimentica facilmente che dietro le scelte di Francesco vi è l’idea che essere Chiesa equivale ad essere Popolo di Dio, secondo le indicazioni contenute nel capitolo II della Lumen Gentium. Qui si puntualizza che la via per la salvezza è stata tracciata per gli uomini considerati non individualmente, perché ontologicamente relazionali, ma come comunità globale. Il suo carattere di universalità, dettato, tra l’altro, dall’assenza di confini spaziali e di limiti temporali, offre il dono della grazia divina ad ogni uomo, a prescindere dal credo religioso, e perfino in assenza di una fede. Da qui l’immediato invito rivolto da Papa Francesco “a quelli che si sentono lontano da Dio e dalla Chiesa, a quelli che sono timorosi e agli indifferenti” (Evangelii Gaudium, n. 113).
Sicché l’opera di Papa Francesco, pur in continuità con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, si è connotata per una fondamentale dissonanza con il passato, perché ha modificato i destinatari principali dello sguardo della Chiesa e ha impresso una forte accelerazione al processo di rinnovamento spirituale.
Certo, un approccio di questo tipo non può fare piacere a chi vorrebbe mantenere privilegi, a chi vorrebbe dialogare soltanto con i potenti, a chi vorrebbe perseguire nell’esercizio del potere. E vorrebbe continuare a piegare i mutamenti della storia alle interpretazioni statiche di un tempo che non esiste più e a tenere fermi principi che non si adattano alla complessità del presente.
Bisogna, invece, proseguire il percorso intrapreso ed insistere su tutte le aperture, compiute o tentate, che hanno incontrato, ed incontrano, resistenze in nome di un’ortodossia dottrinale o ermeneutica, che cela, in verità, la volontà di ridare centralità alle istituzioni ecclesiastiche, riproporre la distanza tra Curia e fedeli e anche ridimensionare l’ampiezza del Popolo di Dio.
Non si può pensare di tornare indietro, di minimizzare i segni lasciati dal Papa nel cuore dei fedeli e disperdere i gesti compiuti nei riguardi delle periferie del mondo e in favore dei più sofferenti, perché questo significherebbe richiudere le porte della speranza, peraltro in un periodo di particolare criticità, caratterizzato da indifferenza e disumanità. Alla Chiesa si richiede, cioè, di mantenere il ruolo di pellegrina di speranza, per continuare ad essere voce dei tanti che sono senza voce.
Alle critiche provenienti dall’interno si sono sovrapposte quelle espresse dal mondo laico, che, come ormai è d’abitudine, si è lanciato in un’acrobatica indagine dal taglio ideologico. Entrambe le tifoserie, quella del partito conservatore e quella opposta progressista, si sono pronunciate sull’inadeguatezza dell’azione del Pontefice, da una parte perché eccessivamente innovativa e poco rispettosa della tradizione, dall’altra perché poco riformista, in considerazione dell’assenza di risultati a fronte delle numerose iniziative avviate.
Anche in questa circostanza si sono perse le coordinate dell’attività del Papa, che, come da lui stesso sottolineato, non ha, e non può avere, una natura politica, ma essenzialmente spirituale, perché chiamato a camminare verso l’incontro con Gesù Cristo. Non si possono, quindi, giudicare gli atti di Francesco con il metro della politica, e neppure valutare gli esiti dei suoi interventi con le chiavi di lettura, e soprattutto i tempi, mondani. Si deve ricordare che si sta parlando della Chiesa universale, con valori e consuetudini stratificati nei secoli e con una platea di interlocutori sparsi nel globo, con condizioni politiche, economiche e sociali differenti e a volte anche inconciliabili.
Ecco, pertanto, il senso del richiamo alla “dignità trascendente” dell’uomo, che, consente di cogliere i difetti dei processi di globalizzazione e i limiti di una visione prettamente economicistica della realtà sociale. Con l’effetto di porre in evidenza, e denunciare, l’espansione della marginalizzazione dei più deboli e la diffusione della “cultura dello scarto”, per la quale certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di chi appare degno di vivere senza limiti, con la conseguenza di escludere da ogni forma di tutela le “persone che non servono ancora” o quelle che “non servono più” (Fratelli tutti, n. 18).
E per non farsi mancare niente nel processo di annientamento del pontificato di Francesco, ecco tracciata la sua insipienza “politica”, per le accuse mosse ai costruttori di muri, per l’atteggiamento mostrato nei confronti di chi ha calpestato la dignità degli immigrati, per la presunta ambiguità mantenuta nel conflitto russo-ucraino e per la prese di posizione assunte nelle vicende tra israeliani e palestinesi. L’immagine che ne scaturisce è quella di un Papa che ha minato rapporti internazionali consolidati e provocato la rottura dell’unità della Chiesa.
Anche in questo caso si dimentica che la Chiesa deve mirare alla salvaguardia dell’armonia dell’unità di ogni popolo, nel rispetto e valorizzazione delle diversità, e all’unione dei popoli nell’ordine universale, senza alcuna alterazione delle specifiche peculiarità. Si proclama, in tal modo, per il Popolo di Dio nel suo complesso, e per ogni uomo in particolare, l’obiettivo della costruzione, reale ed effettiva, di un progetto di convivenza, ispirato dal dialogo tra i governanti, dall’eliminazione delle disuguaglianze, dall’incontro con l’alterità. In questo ambito nessuna giustificazione può essere attribuita ad alcun tipo di guerra e nessun cedimento può sussistere nei riguardi “di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo” (Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2019).
La pace diventa, così, il bene comune universale, criterio di giudizio delle modalità di esercizio del potere e bussola per la definizione dei rapporti internazionali. Senza equivoci e senza compromessi.
Ed allora, smorziamo tutte le critiche di retroguardia, avanzate per arrestare il cammino della Chiesa sulla strada del dialogo con i reietti, per proseguire nella difesa intransigente della giustizia sociale e della pace, alla luce dei criteri della carità e della solidarietà globale. Questa linea, tracciata da Papa Francesco, mira all’unità sintetica di particolare e globale, di semplice e complesso, di teoria e prassi. In adesione all’evoluzione dei tempi, ma soprattutto alla necessità di poter contare su una voce critica coraggiosa al servizio dell’uomo e della vita.
Alberto Scerbo