Quaderno monografico n. 2MARIA D’ARIENZO La discriminazione religiosa nel contesto nazionale ed europeo. Considerazioni introduttive
Quaderno monografico n. 1GIAN PIERO MILANO La conformazione del diritto vaticano al diritto internazionale
(26 maggio 2025)
Non integra un’indebita appropriazione della denominazione altrui l’utilizzo da parte di una realtà associativa non facente parte dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia del nominativo “Comunità ebraica”. Il riconoscimento delle Comunità ebraiche associate all’UCEI come enti ecclesiastici civilmente riconosciuti non implica l’attribuzione del diritto di uso esclusivo di una locuzione che fa parte del patrimonio dell’ebraismo globalmente considerato
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Omissis (…)
- L’ebraismo italiano: Comunità, Unione e rappresentanza unitaria. Dal carattere pubblicistico allo statuto di autonomia.
La questione della rappresentanza dell’ebraismo italiano costituisce una costante nella riflessione sui limiti e portata delle disposizioni che regolano i rapporti tra lo Stato e l’Unione delle comunità ebraiche in Italia. Il tema interessa l’esigenza, storicamente avvertita da parte religiosa e sollecitata da parte statale, di determinare le condizioni per una interlocuzione istituzionale con gli organi governativi e, al contempo, di rafforzare la coesione interna alla stessa comunità di fede[1]. In tale processo, la sottoscrizione dell’intesa nel 1987 e la conseguente emanazione della legge n. 101 del 1989 hanno significato una svolta essenziale nel processo di definizione della rappresentanza dell’ebraismo italiano[2], giungendo ad un assetto organizzativo articolato intorno ai concetti, rispettivamente, di Comunità e di Unione[3], organizzazioni aventi lo scopo di curare gli interessi di tutti gli ebrei. La dimensione locale e quella esponenziale rispondono, cioè, al comune interesse di raccogliere tutte le persone di religione ebraica presenti sul territorio italiano e di rappresentarle in ogni loro necessità. Una tale articolazione bidimensionale, oltre a comportare una differenziazione della tutela di quegli interessi, prevalendo gli aspetti più propriamente religiosi e rituali nella dimensione comunitaria e quelli più ampi di rappresentanza di primo e secondo grado in quella esponenziale, non perde la visione unitaria di quella rappresentanza, saldando i diversi livelli in modo inscindibile.
L’assetto dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia è frutto di un processo storico di determinazione di collegamenti tra strutture a fini rappresentativi. La dimensione unitaria dell’ebraismo italiano ha cioè conosciuto una fase di progressiva federazione delle Università israelitiche che, da un’iniziale autonomia a base territoriale, sono progressivamente giunte, per atto volontario, a costituirsi in forma consortile[4].
A sua volta, il Consorzio delle Comunità israelitiche italiane cedette il passo all’organizzazione dell’Unione, essenzialmente per motivi di sopravvivenza finanziaria e di conservazione dei patrimoni storico artistici, che necessitavano di una struttura di livello nazionale in grado di curare gli interessi, in forma egualitaria, delle comunità territoriali. Non scevra da tale transizione la tutela dell’interesse generale dell’ebraismo, che muoveva dalla necessità di addivenire ad una più profonda coesione interna, che la natura territoriale preunitaria non aveva permesso di sviluppare[5].
L’intervento legislativo del 1930 costituì una svolta sia dal punto di vista organizzativo che da quello rappresentativo dell’ebraismo italiano, mediante la regolamentazione per via pubblica, prima volta per un culto diverso dal cattolico, oltre che dei rapporti con lo Stato anche dello statuto interno di una comunità religiosa. Sebbene ciò costituisse una novità al tempo e un unicum nel prosieguo dello sviluppo del modello di rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica, il regio decreto n. 1731 del 1930 mantenne una sua natura concertata, mediante la costituzione di una commissione mista che ne discusse i contenuti[6].
Alla natura unitaria e pubblicistica delle Comunità israelitiche che emergeva dalla legislazione degli anni ’30, si accompagnava il riconoscimento formale del ruolo dell’Unione, alla quale spettava il compito, ai sensi dell’art. 36 del regio decreto richiamato, di rappresentare le Comunità e gli israeliti italiani di fronte al Governo e al pubblico. Il legame tra Unione e Comunità emergeva dallo stesso assetto legislativo della nuova legislazione pubblicistica. Se l’Unione si configurava come organo distinto dalle Comunità, da queste ultime era tuttavia determinato nella composizione, mediante l’espressione di delegati dei consigli indicati dai territori[7]. Tale disposizione costituiva la sintesi tra i due poli sui quali l’organizzazione dell’ebraismo italiano era andato fondandosi. In essa non emerge, infatti, il venir meno del ruolo centrale delle stesse Comunità, che anzi venivano implicitamente riconosciute nella loro dimensione fondamentale. Ciò dipendeva, peraltro, dall’affermazione del principio dell’appartenenza di diritto, per cui la qualità di membro di una Comunità costituiva requisito essenziale per godere anche della rappresentanza dell’Unione[8]. Nella sostanza, la tutela degli interessi dell’ebraismo e dei suoi membri passava per il riconoscimento delle cellule organizzative primarie, cui gli ebrei avrebbero dovuto necessariamente appartenere per godere dei diritti che lo statuto pubblicistico dell’ebraismo italiano regolava. Come, pertanto, affermato in dottrina, la valorizzazione della dimensione comunitaria costituiva uno specifico della presenza ebraica in Italia, la cui organizzazione locale, già dal periodo preunitario, rispecchiava una costante tradizione. Ciò sul presupposto ora che l’ebraismo potesse meglio esprimersi localmente[9], ora che a tale spirito territoriale si aggiungesse una idea di separatezza rispetto al resto della popolazione[10]. Il dato non è di poco conto, se si considera che nel passaggio dalla disciplina pubblica a quella autonoma, propria della fase di conclusione dell’intesa del 1987, anche l’identità ebraica subiva una trasformazione in senso espansivo, manifestandosi pubblicamente con maggiore connotazione, sia dal punto di vista culturale che religioso. Si affermava cioè un allontanamento dalla pratica dell’assimilazione, in favore di una maggiore visibilità sociale, religiosa e politica, che richiamava al valore centrale dell’ebraismo nell’identità personale come in quella comunitaria[11]. Due aspetti dell’identità che, se nel sistema di legislazione proprio degli anni ’30, erano inscindibilmente connessi attraverso il principio di appartenenza automatica dell’individuo alla Comunità territoriale, con l’avvento dei principi costituzionali riacquisivano uno spazio di autonomia, sebbene in relazione tra loro.
Tale approdo di conformità al nuovo corso dei diritti si deve, com’è noto, all’intervento della Corte costituzionale che, con sentenza n. 239 del 1984 interveniva escludendo la conformità alla Costituzione del principio dell’appartenenza di diritto, così come della eterodeterminazione dello statuto della confessione da parte della legge dello Stato. Con riferimento, in particolare, alla prima questione, l’elemento dell’obbligatorietà dell’iscrizione mal si armonizzava con il diritto alla libera adesione associativa del singolo, tutelata dall’art. 18 Cost., libertà in cui si concretizza la manifestazione della personalità individuale, entro lo spazio privilegiato delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost.
L’approdo della Consulta si dirigeva così alla valorizzazione dei diritti del singolo, che risultavano violati dal principio di necessità e automaticità dell’iscrizione, determinata dalla sola ricorrenza della specifica identità religiosa personale e del criterio della residenza[12]. Al contempo, la riconduzione delle stesse Comunità alla categoria delle formazioni sociali segnava una svolta in termini espansivi per l’intera categoria delle confessioni religiose[13].
Ma la pronuncia della Corte costituzionale rilevava anche l’illegittimità della misura dell’iscrizione obbligatoria alla comunità territoriale per la persona ebrea con riguardo all’art. 3 della Costituzione che, nel normare il principio di eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, non tollera distinzioni per motivi di razza e di religione[14]. La specifica qualifica di «israelita» introduceva, cioè, una disparità di trattamento tra i cittadini, comportando l’automatica iscrizione e, conseguentemente, l’estensione allo specifico individuo, degli effetti derivanti da quella appartenenza anche nell’ordinamento statuale.
Con la pronuncia della Corte costituzionale si aprì, pertanto, una fase di importante revisione dell’impianto generale dei rapporti con e dentro l’ebraismo italiano. Come efficacemente sostenuto, dallo schema dell’appartenenza di diritto, il rapporto tra gli ebrei e le loro istituzioni, prima di tutto di livello comunitario, si trasformò in un’affermazione del diritto all’appartenenza[15].
Del pari, anche tutte le norme afferenti all’organizzazione interna dell’ebraismo avrebbero dovuto essere riviste, sulla base del passaggio al modello di regolamentazione di tipo pattizio costituzionalmente previsto, che non poteva più tollerare l’ingerenza pubblica nelle determinazioni interne alla minoranza religiosa.
Con la sottoscrizione dell’intesa e la successiva legge n. 101 del 1989 il sistema è andato, così, articolandosi tra previsione interne ed esterne, il cui coordinamento su aspetti essenziali della definizione dello statuto dell’ebraismo italiano sono ancora oggi oggetto di dibattito. E così, da una parte, l’art. 1 dello Statuto dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane espressamente qualifica le comunità come formazioni sociali originarie, la cui organizzazione è mutuata dalla legge e dalle tradizioni ebraiche e il cui compito attiene al soddisfacimento delle esigenze religiose, associative, sociali e culturali degli ebrei. Tale disposizione prevede, altresì, che «le Comunità costituiscono tra loro l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, espressione unitaria dell’ebraismo italiano»[16].
Per altro verso, la legge n. 101 del 1989 all’art. 19 prevede, con ampiezza di formulazione, il ruolo dell’Unione come «ente rappresentativo della confessione ebraica nei rapporti con lo Stato e per le materie di interesse generale dell’ebraismo». Nello stesso tempo, all’art. 18 è regolamentata l’ipotesi di «costituzione di nuove Comunità, nonché la modifica delle rispettive circoscrizioni territoriali, la unificazione e la estinzione di quelle esistenti», procedura che prevede l’emanazione di un Decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato, su domanda congiunta della Comunità e dell’Unione. Il rapporto tra tali norme appare, infatti, porre questioni di coordinamento in ordine alla rappresentanza della realtà confessionale nel suo insieme.
Il tema riguarda, così, da un lato una riflessione intorno all’ampiezza del significato di confessione ebraica ed ebraismo, anche nella sua dimensione prettamente individuale. Dall’altro si tratta di comprendere l’ampiezza della rappresentanza dell’Unione nello stretto collegamento con le Comunità e la possibilità di ritenere o meno assorbita in questo dualismo organizzativo tutta l’espressione dell’ebraismo presente in Italia.
- Ricostruzione dei fatti di causa: le principali questioni poste all’attenzione del Tribunale.
Da tali questioni prende le mosse il caso trattato dalla recente pronuncia del Tribunale di Catania, su atto di citazione promosso dalla stessa Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dalla Comunità ebraica di Napoli, ente territoriale appartenente alla stessa Unione e legittimato attivo, in funzione della afferenza territoriale dei fatti di causa alla sua circoscrizione.
Nella specie, le parti attrici richiedevano una tutela inibitoria e risarcitoria nei confronti della associazione “Comunità Ebraica di Catania”, di cui lamentavano l’utilizzo indebito dell’espresso riferimento, nel proprio nome, alla denominazione “Comunità Ebraica”, ritenuta spettante ai soli enti civilmente riconosciuti sulla base dell’art. 18 della legge n. 101 del 1989.
Ritenevano cioè le parti attrici illegittimo l’utilizzo del nominativo testé ricordato, al di fuori dell’espresso riconoscimento dell’associazione siciliana quale Comunità ebraica e membro dell’Unione.
La stessa, infatti, si pone al di fuori della procedura che la legge di emanazione dell’Intesa con l’Unione prevede per la costituzione di nuove comunità e per la modifica delle circoscrizioni territoriali.
L’indebito utilizzo della denominazione “Comunità ebraica” avrebbe, peraltro, avuto l’effetto di ingenerare negli interlocutori la falsa percezione di stare interagendo con un soggetto qualificato come appartenente all’Unione. Si trattava, cioè di una asserita indebita appropriazione della denominazione delle attrici, di cui si chiedeva la cessazione e il risarcimento per il danno da essa derivante.
Per converso, l’associazione convenuta, nel contestare la fondatezza delle domande, deduceva l’impossibilità di poter considerare la locuzione “Comunità Ebraica” un nome proprio, riservato agli enti riconosciuti in forza delle disposizioni dell’Intesa del 1989. Ciò in quanto l’espressione “Comunità Ebraica” deve ritenersi appartenente alla tradizione, come tale utilizzata in tutto il mondo e anche fuori dall’Europa.
Con riferimento, peraltro, alla questione della afferenza alla circoscrizione territoriale della Comunità di Napoli, l’associazione convenuta precisava di essere l’unica Comunità Ebraica di Catania, non esistendo altra realtà su quel territorio riferibile all’Unione. L’associazione convenuta, inoltre, specificava di essersi sempre presentata nei rapporti con i terzi come «Comunità Ebraica di Catania, Autonoma e non Aderente all’UCEI»[17]. Il dato non costituisce mero fatto, bensì espressione della più ampia volontà di detta associazione di non intendere assumere la veste di ente ebraico civilmente riconosciuto ai sensi della legge n. 101 del 1989, ritenuta non obbligatoria. Una scelta, indicava la convenuta, già manifestata da altre soggettività presenti, con ruolo di protagonismo, all’interno dell’ebraismo italiano, entro una forma di pluralismo in armonia con il sistema normativo attualmente vigente.
Sebbene dalla pronuncia emerga una questione essenzialmente legata all’utilizzo della locuzione “Comunità Ebraica”, si prospetti, cioè, un tema di tutela contro l’indebita appropriazione di una denominazione da parte di un soggetto associativo non legittimato[18], a ben vedere la questione posta all’attenzione del Tribunale di Catania presenta dei risvolti di maggiore complessità.
L’uso indebito del nome conduce infatti al tema della presenza o meno di quegli elementi contenutistici che consentano, nella visione propria dell’ebraismo italiano, di definire un ente Comunità Ebraica.
Come emerge dalla nota dell’Ucei successivamente alla pubblicazione della sentenza[19], alla definizione di Comunità Ebraica si riconnette, nella visione propria dell’Unione, la presenza di una serie di elementi sostanziali entro il soggetto comunitario, non ritenuti sussistenti nell’associazione territoriale convenuta.
La definizione di Comunità Ebraica, in tal senso, non può prescindere non solo dagli aspetti procedurali della sua costituzione secondo la norma dell’art. 18 dell’intesa, ma anche dal soddisfacimento di alcuni requisiti ritenuti essenziali secondo la legge ebraica. Si tratta cioè delle norme proprie dell’Halacha, con riferimento, pertanto, ad esempio, alla presenza di un numero minimo di persone residenti, tale da garantire il regolare svolgimento delle funzioni religiose; del regolare approvvigionamento di cibi kasher; della presenza del bagno rituale. Ma, come rilevato dalla richiamata nota dell’Ucei, si tratta soprattutto della presenza, alla guida comunitaria, di un Rav nominato in base ad una delibera dell’Assemblea Rabbinica Italiana. Il tema del ruolo della legge religiosa risulta, essenziale per stabilire quale comunità possa definirsi ebraica[20]. L’elemento è strettamente connesso al ruolo primario delle Comunità, dalla stessa legge n. 101 del 1989 riconosciuto nel provvedere, secondo le norme proprie dello statuto dell’ebraismo italiano, «al soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei secondo la legge e la tradizione ebraica»[21].
Come, pertanto, ampiamente rilevato, il riferimento alla Halacha connota le Comunità e la stessa Unione entro i canoni dell’ebraismo ortodosso, elevato a sistema conglobante, secondo le specifiche statutarie e di legge, tutto l’ebraismo italiano[22]. Ne consegue che la mancata conformità ai principi propri della tradizione incide sulla stessa configurabilità di una Comunità ebraica rispondente ai canoni previsti dall’assetto giuridico italiano. La posizione dell’Unione sul punto è, pertanto, cristallina, non ritenendo possibile attribuire l’uso del nome ad una realtà associativa priva di quegli elementi che la rendano compatibile con le regole testé ricordate.
Si noti, inoltre, come nella stessa dichiarazione dell’Ucei e, a ben vedere, già nelle comunicazioni che l’ente esponenziale ha inteso pubblicare a partire dalla fine del 2023, emerga in realtà la presenza, nella città di Catania, di una sezione ebraica della più ampia circoscrizione della Comunità di Napoli. L’istituzione della sezione catanese è avvenuta sulla base dell’art. 4bis dello Statuto dell’ebraismo italiano che, nel prevedere tale possibilità, pone la diaspora territoriale sotto la giurisdizione della Comunità più prossima. La disposizione, peraltro, ripropone il tema dell’iscrizione su base residenziale. Così espressamente il comma 6 dell’art. 4bis richiamato prevede che «gli ebrei residenti nella Sezione sono iscritti alla Comunità Ebraica di appartenenza». La norma pare così, di fatto, escludere la possibilità di una iscrizione ad altro organismo, avente medesima denominazione, ritenendo di diritto sussunta l’iscrizione dei residenti entro la specifica sezione appartenente all’Ucei, libera la possibilità di iscrizione ad altro ente associativo, purché con altra denominazione. Se la tempistica relativa alla creazione della Sezione comunitaria di Catania appare in qualche modo connessa al contenzioso in essere con l’associazione convenuta, si deve peraltro rilevare come l’apertura di nuove sezioni nella circoscrizione meridionale d’Italia appare, nelle intenzioni dell’Ucei, legata alla ricostituzione organizzata di gruppi storici dissolti o cacciati da quei territori, con la volontà di rispondere al mandato statutario di provvedere ai bisogni di tutti gli ebrei d’Italia, ovunque collocati[23]. La presenza di un gruppo organizzato sotto l’egida dell’Ucei rende, pertanto, evidente il conflitto territoriale esistente e, al contempo, determina un contenzioso in ordine al riconoscimento nominale dei due diversi enti. Se, come sostenuto dall’Ucei, l’intesa del 1989 pone la «Comunità Ebraica» quale istituzione caratterizzante dell’ebraismo italiano, quella locuzione diviene segno distintivo della stessa istituzione, non attribuibile pertanto ad altro ente associativo di natura privata che si pone al di fuori della regolamentazione statutaria e legislativa[24]. La contemporanea presenza di due enti aventi la medesima denominazione implica, nelle deduzioni dell’Unione, un rischio di lesione del legittimo affidamento di terzi indotti, dall’illegittimo utilizzo del nome, per un verso a stringere relazioni con istituzioni locali e a ricevere benefici anche consistenti in contributi pubblici, dall’altro – con particolare rilevanza – a intraprendere rapporti su base religiosa con chi manifesti interesse ad un percorso di vita ebraica, finanche di conversione. L’assunto dell’Ucei sul punto è pertanto connotato anche nel senso della validità di una tale conversione all’ebraismo, così come alla cura degli interessi di chi sia già appartenente alla religione ebraica. Sembra pertanto l’Ucei ritenere che un ente ontologicamente diverso da una Comunità Ebraica e religiosamente lontano dai principi propri dell’ebraismo ortodosso non possa rispondere alle aspettative di chi si rivolga ad esso con l’idea di trovarsi di fronte ad una rappresentanza dell’ebraismo italiano.
Le posizioni espresse dalle parti paiono, pertanto, configurare una polarizzazione interpretativa che si articola su alcune questioni essenziali, inerenti alla struttura costitutiva e rappresentativa dell’ebraismo italiano. Si tratta, in particolare, della problematica dell’universalità o meno della rappresentanza espressa dall’Ucei, della possibilità, cioè di ritenere sussunta sotto l’Unione ogni forma di espressione genuinamente comunitaria, sulla base del legame esistente tra dimensione territoriale ed ente esponenziale, come sancito dalle disposizioni della legge n. 101 del 1989. In tal senso, se la costituzione di una Comunità ebraica passa, ai sensi dell’art. 18 della legge testé richiamata, per l’emanazione di un atto normativo al termine di un iter che vede l’Unione e la Comunità soggetti unitariamente proponenti, il tema riguarda la conformità dell’utilizzo della denominazione “Comunità Ebraica” da parte di enti associativi che vengano in vita per atto tra privati. Allo stesso tempo, l’utilizzo della denominazione è associato alla presenza di specifici requisiti oggettivi e soggettivi dell’ente che ne faccia uso. Il tema è, pertanto se la Comunità ebraica costituisca un termine per riferirsi esclusivamente alle espressioni territoriali dell’ebraismo ortodosso proprio dell’Unione. Di qui, si giunge alla più ampia questione della legittimità o meno del riconoscimento del pluralismo interno allo stesso ebraismo italiano e ai suoi criteri di rappresentanza.
- Il decisum. L’uso esclusivo della denominazione “Comunità ebraica”, tra riconoscimento legislativo e patrimonio del popolo ebraico.
Nel merito, il Tribunale di Catania integralmente rigettava le richieste di parte attrice, argomentando intorno a questioni di particolare rilievo, che sembrano porre conseguenze al di là dei soli fatti di causa. Nella specie, il tema preliminare affrontato dal giudicante attiene al valore semantico del termine “comunità” e alla sua particolare declinazione nell’ambito della storia del popolo ebraico. Prescindendo da una prima valutazione di tipo territoriale, valida per la determinazione dell’esperienza ebraica italiana, la pronuncia ricorda come il termine comunità si riferisca ad un insieme di persone la cui unione si caratterizza per rapporti sociali o di altra natura e da interessi comuni. Viene, peraltro, rilevata la specifica accezione del termine con riferimento all’associazionismo nell’ambito di una stessa confessione religiosa. La pronuncia si rifà, pertanto, non all’uso comune, quanto alla declinazione del termine nell’ambito dell’associazionismo su base confessionale, rilevandone l’uso diffuso per identificare l’insieme di persone unite dal vincolo religioso, eventualmente connotato in senso territoriale[25]. Ciò vale con particolare significato per la storia del popolo ebraico successiv alla diaspora per cui, articola il giudicante, si realizzava il passaggio da un’organizzazione identitaria di tipo territoriale ad un’organizzazione di tipo comunitario. La sentenza pare, pertanto, porsi in linea di continuità con quella dottrina che individua nella comunità ebraica l’elemento territoriale attraverso il quale storicamente il popolo ebraico ha organizzato la sua presenza diasporica[26]. Cionondimeno, afferma la pronuncia come l’ebraismo si differenzi da altre minoranze religiose per la sua natura di insieme vasto e composito.
L’eterogeneità dell’ebraismo si concretizza nella confluenza di aspetti non esclusivamente connessi alla questione religiosa e cultuale, ma per la considerazione di profili culturali, di tradizioni e di norme di comportamento. Intende cioè il giudicante porsi in chiave dialettica rispetto ad una definizione di popolo ebraico che conduca alla considerazione dei soli profili confessionali, dovendo riferirsi, diversamente, ad un ambito vasto di profili che globalmente si riferiscono ad un popolo e alla sua storia[27]. Ciò senza eliminare il dato, storicamente e culturalmente ricorrente, della specifica autonomia, cercata e rivendicata da quel popolo, in ogni contesto e condizione culturale e politica con la quale sia venuto in contatto. Etnia, religiosità e identità costituiscono tratti di un’autonomia connessa alla identità nazionale, che non cede di fronte a forme di assimilazione culturale.
Di qui la pronuncia si muove per analizzare la specifica condizione dell’ebraismo italiano. La ricostruzione storico giuridica a partire dal periodo preunitario segue le tappe già descritte, con una particolare propensione a segnalare quella diversità ordinamentale che caratterizzava la presenza ebraica nei vari territori prima dell’unificazione. La ricostruzione, ad esempio, della natura di corporazioni pubbliche necessarie, proprie delle comunità toscane, venete e della provincia di Mantova, conviveva con la presenza di organizzazioni che operavano nell’ambito del diritto comune, come nelle città di Roma, Milano, Napoli. Una diversificazione che si dimostrava tale anche nella natura di totale autonomia e indipendenza delle e tra le Comunità, fino alla nascita del Consorzio e, successivamente, con la legislazione degli anni Trenta, dell’Unione[28]. Si individua, anche nella disamina del giudicante, un segno di rottura nell’attribuzione alle Comunità, con il regio decreto n. 1731 del 1930, della generale natura di corporazioni di diritto pubblico[29]. L’argomento è funzionale all’introduzione dell’elemento della discontinuità propria della stagione repubblicana e al ruolo della Corte costituzionale nel sancire, oltre all’illegittimità del criterio dell’appartenenza individuale obbligatoria, anche quello dell’iscrizione obbligatoria di tutte le Comunità all’Unione[30].
Prosegue la disamina del giudice riferendosi all’essenzialità della libertà di associazione costituzionalmente reintrodotta a seguito del regime, rilevando lo stretto legame sussistente tra rispetto del principio costituzionale di cui all’art. 18 Cost. e la sua applicazione in negativo, come nel caso del divieto di obbligo di partecipazione ad un ente associativo confessionale. Ci si riferisce, così, alla sentenza n. 259/90 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità di gran parte delle disposizioni della Legge Falco, per contrasto ai principi dell’autonomia statutaria di cui all’art. 8, secondo comma Cost. e al più ampio principio supremo di laicità. La pronuncia, in particolare, si concentra sulla questione della natura pubblica della personalità giuridica delle Comunità sancita dal regio decreto del 1930, evidenziandone l’incompatibilità con i principi costituzionali testé richiamati, «soprattutto perché […] comporta l’assoggettamento di formazioni sociali, che si costituiscono sul sostrato di una confessione religiosa, alla penetrante ingerenza di organi dello Stato; il che inoltre, nel rispetto alle altre religioni, costituisce una palese discriminazione che contrasta con il principio di uguaglianza, con quello della libertà religiosa e con quello di autonomia delle confessioni religiose»[31].
Nel collegarsi a tale questione, il Tribunale di Catania introduce l’argomento della tutela della libertà religiosa costituzionalmente garantita e, più nello specifico, dell’autonomia statutaria delle confessioni religiose, mostrando così di voler considerare essenziale, agli effetti della decisione, il più ampio quadro della materia pubblicistica in tema di rapporti di quelle confessioni con lo Stato, al di là del mero dato relativo alla tutela della denominazione comunitaria entro l’ ordinamento dell’Unione. L’argomento è essenzialmente ripreso mediante l’analisi dei principi informatori dell’intesa con l’Unione, a partire dal suo preambolo e dal richiamo ai principi e valori di carattere internazionale in esso contenuto, a dimostrare che l’ebraismo italiano riallaccia la sua natura e le sue tradizioni alla più ampia sfera internazionale di difesa dei diritti fondamentali.
La disamina si concentra, in chiusura, sulla qualifica delle comunità ebraiche quali enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Una qualifica, sostiene il giudicante, che deve inserirsi all’interno della disciplina costituzionale oggi vigente e dei principi sovranazionali, come espressamente richiamati nel preambolo. Una lettura costituzionalmente orientata dello statuto dell’ebraismo italiano comporta l’impossibile attribuzione di un uso esclusivo alla denominazione “Comunità ebraica”, come diversamente dedotto dalla parte attrice nelle sue richieste. Sostiene la pronuncia che tale espressione sia in realtà «di per sé priva di carattere individualizzante, che ben può essere utilizzata in accezione politico – sociale, quale gruppo di individui organizzati secondo la tradizione dell’ebraismo (a prescindere dalla forma giuridica assunta nell’ordinamento giuridico italiano)».
D’altra parte, conclude il giudicante, dalle risultanze di causa l’associazione denominata «Comunità ebraica di Catania» non sembra aver svolto le sue attività, consistenti in incontri religiosi e culturali, interferendo con l’attività istituzionalmente riservata agli enti riconosciuti ai sensi della legge n. 101 del 1989. Infine, la sentenza rileva l’incompetenza del Tribunale a giudicare sulla condotta dei fondatori dell’associazione catanese con riferimento all’asserita grave violazione della normativa ebraica e per aver agito «senza alcuna organizzazione e senza alcun coordinamento con il Rabbino Capo della Comunità ebraica di Napoli, competente per circoscrizione su ogni questione di ambito religioso nelle Regioni dell’Italia Meridionale e in Sicilia», trattandosi di questione interna allo statuto della confessione religiosa.
- L’organizzazione dell’ebraismo italiano: comunità, ortodossia, unitarietà. Rilievi critici.
La pronuncia in commento pone questioni recentemente emerse e connesse al moltiplicarsi delle manifestazioni associative alternative all’ebraismo istituzionale italiano, con ciò intendendo riferirsi a tutte quelle sigle non rientranti nell’ordinamento dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia, ovvero da questa non riconosciute. Il tema essenziale che pare emergere attiene, pertanto, al possibile pluralismo delle rappresentanze dell’ebraismo italiano, che non sembrerebbe più potersi considerare interamente sussunto nel solo organismo firmatario dell’intesa con lo Stato. Quanto posto costituisce ancora una novità relativa. Com’è noto, l’organizzazione dell’ebraismo italiano, nelle sue peculiarità, è riuscita finora ad autocomprendersi e organizzarsi in forma unitaria[32]. Un tale statuto differenzia la situazione italiana da quella presente in altri contesti nazionali, costituendo, come autorevolmente sostenuto, quasi un unicum nel contesto dell’ebraismo diasporico[33]. Se, infatti, l’ebraismo, nelle sue diverse manifestazioni internazionali, si presenta plurale in senso religioso e diversificato nelle forme associative, per lo più di tipo federativo, la struttura dell’ebraismo italiano è essenzialmente espressione monoconfessionale dell’ebraismo ortodosso. L’Unione delle comunità ebraiche se, da una parte, ha nelle sue finalità la cura degli interessi prettamente religiosi e cultuali, come di quelli sociali e culturali, dal punto di vista del religioso risponde alle sole regole della Halacha, non ammettendo così tradizioni diverse, come nel caso delle correnti riformate o conservative particolarmente diffuse negli Stati Uniti[34], o liberali, come nel caso francese[35]. Né è espressione di riti diversi, in ciò determinata anche dall’uso della lingua italiana e dai piccoli numeri[36]. Al contempo, l’analisi storico giuridica della condizione delle Comunità ebraiche italiane, come rilevato dal lavoro di Guido Fubini, restituisce un’immagine inclusiva di tali formazioni sociali. Il ripensamento in senso integrativo del concetto di Comunità è infatti legato all’esperienza, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, di immigrazione che ha riguardato anche le comunità ebraiche italiane. Ciò ha portato ad un cambio di fisionomia e all’introduzione di nuove tradizioni rituali, che imponevano una riflessione sul mantenimento di una natura esclusiva, tipicamente della tradizione ebraica italiana, o un’apertura all’incontro e alla rappresentanza anche di tradizioni molto lontane, ivi incluse quelle di piccoli gruppi afferenti alle correnti riformate o conservative[37]. La questione posta da Fubini all’attenzione dell’ebraismo italiano riguardava il rischio, rivelatosi a distanza di anni più che concreto, di instaurare nel Paese un ebraismo differenziato ma internamente indifferente, così alimentando una divisione a livello confessionale non auspicata. In particolare, si rilevava il rischio di un ebraismo a due velocità, uno garantito dal riconoscimento statuale, l’altro composto di soli gruppi di fatto[38]. Il dato rilevante in senso giuridico attiene alla struttura che l’ebraismo si è dato con la stipulazione dell’intesa e grazie agli interventi della Corte costituzionale, alcuni dei quali rilevati dalla stessa sentenza del Tribunale di Catania.
I temi essenziali che riguardano attualmente e in forma interlocutoria l’assetto organizzativo e la rappresentatività dell’Unione attengono a tre ordini di questioni, tra loro connesse: la natura delle Comunità; il dato di rappresentanza dell’intero ebraismo italiano; la definizione di ebreo secondo i principi propri dell’ebraismo ortodosso. La prima questione si rivela essenziale per la problematica posta all’attenzione del Tribunale di Catania. Secondo l’intesa e lo statuto dell’ebraismo italiano, le Comunità sono concepite come formazioni sociali originarie. Se il dato risponde ad una concezione sociologica dell’organizzazione territoriale comunitaria italiana, ad esso tuttavia si riconnettono ben precise riflessioni giuridiche. Il riconoscimento delle Comunità ebraiche come «formazioni sociali originarie» costituì la chiave di volta per il superamento, nel nuovo assetto dell’intesa, del problema dello statuto di diritto pubblico precedentemente loro attribuito[39]. La definizione delle Comunità come formazioni sociali originarie è stata così accolta nello statuto dell’ebraismo italiano[40] e nell’intesa[41]. Come rilevato, un tale riconoscimento ha costituito la risposta alla necessità di regolamentare realtà non esclusivamente operative nel campo delle finalità di religione e di culto[42]. Intorno alla definizione delle Comunità come formazioni sociali originarie si sono, pertanto, condensate questioni ampie, che hanno trovato una risoluzione nel riconoscimento della storicità di quelle realtà e della loro peculiarità. Tale storicità è esemplificata nell’assunzione, all’art. 18 della legge 101 del 1989, della denominazione «Comunità ebraica» per le realtà territoriali italiane da sempre presenti nelle maggiori città. In questo senso si comprende la lamentela portata avanti dall’Ucei, che consiste nella comprensione della natura specifica dell’utilizzo di quella denominazione come esclusivamente riferita alle realtà indicate nell’art. 18 della legge n. 101 del 1989, o a quelle successive, nate a seguito della procedura legislativamente individuata dalla medesima disposizione. Il riconoscimento di legge costituisce un più ampio richiamo alla storia di transizione di quelle realtà, da sempre presenti nel tessuto sociale e territoriale italiano e che sono state soggette alla regolamentazione più varia, senza mutare la propria natura ontologica, ma solo la loro configurazione giuridica. L’assunzione, pertanto, della specifica denominazione all’interno della legge n. 101 del 1989 e nello Statuto dell’ebraismo italiano, comporta l’evidente rivendicazione di quel percorso storico e giuridico come afferente all’esperienza dell’Unione, quale ente rappresentativo dell’ebraismo italiano nel suo complesso. Il caso di specie affronta così il tema della legittimità dell’utilizzo di una denominazione, di cui si rivendica l’appartenenza, in forza dell’assetto normativo attualmente in vigore in Italia per la regolamentazione del rapporto con la confessione ebraica. Dall’altro lato, esso attiene alla possibilità di considerare quel termine attribuibile anche ad altre realtà comunitarie, sebbene alternative e distinte dall’Unione. La pronuncia del Tribunale di Catania predilige tale ultima ricostruzione, ritenendo il fenomeno comunitario interessare l’esperienza del popolo ebraico nella sua dimensione diasporica, ben oltre il solo caso italiano. Il dato è corroborato, nella linea del giudicante, dal richiamo, nel preambolo della stessa intesa del 1987, ai valori di carattere internazionale, cui anche l’ebraismo italiano dichiara di ispirarsi. L’argomento è utile per il riferimento a tutti quei diritti in cui si esplica la libertà religiosa individuale e associata, in cui rientra anche la regolamentazione dell’assetto giuridico delle comunità. Questo, tuttavia, sostiene il giudicante, non prevede un uso esclusivo del termine «Comunità ebraica», riferendosi esso soltanto alla realtà di individui organizzati secondo la tradizione dell’ebraismo, a prescindere dalla forma giuridica assunta nell’ordinamento italiano.
D’altra parte, il termine ebraico Kehillah utilizzato per indicare l’esperienza comunitaria locale, risulta essere ampiamente diffuso nel contesto dell’ebraismo, al di là dell’esperienza italiana più istituzionalizzata. Nella autorevole ricostruzione dell’origine dell’idea di Comunità ebraica e dei suoi rapporti con la società, la nascita del concetto di comunità si riconnette alla perdita di autonomia e indipendenza da parte della nazione ebraica a causa della caduta del Regno Babilonese. L’idea di comunità nasce, pertanto, storicamente, per consentire agli esuli ebrei di conservare la propria identità, mediante la costituzione di congregazioni con strutture fisiche, le sinagoghe, e organizzazione di ruoli, a partire dalla presenza del rabbino, dell’officiante, del macellatore rituale, del maestro[43]. In questo senso appare complesso potersi riferire alla denominazione «Comunità ebraica» in senso esclusivo. Ciò implicherebbe ritenere tale soltanto la realtà dell’ebraismo italiano in forza del dato formale emergente dal riconoscimento di legge, dovendo respingere ogni forma di espressione di comunità in senso materiale, anche qualora alternativa alla forma propria dell’istituzione di cui all’intesa con lo Stato.
Qui si inserisce il secondo nodo, che la sentenza non pare però prendere direttamente in considerazione. La tradizione dell’ebraismo cui l’Ucei si riferisce, attiene alla sola corrente ortodossa, con ciò dovendosi considerare Comunità ebraiche soltanto quelle corrispondenti ai principi e alle prassi di tale tradizione. Dalla ricostruzione dei fatti di causa, il tema emerge solo indirettamente dell’assenza di legame della comunità di Catania con la giurisdizione di Napoli[44]. Un legame che appare, da una parte, non voluto né cercato dall’associazione convenuta, che si dichiara non interessata ad una interlocuzione con l’Ucei. Dall’altra, quella assenza deve necessariamente imputarsi anche all’evidente distanza che la giurisdizione meridionale dell’Ucei ha posto nei confronti dell’associazione catanese, motivata in ciò da un’asserita scarsa adesione ai principi propri della tradizione ebraica. La questione, allora, riguarda la necessità di conciliare il richiamo, che la stessa intesa compie, all’Unione come ente rappresentativo di tutto l’ebraismo italiano, con la presenza, non più così rara, di realtà che si pongono al di fuori e in rappresentanza di altre correnti e tradizioni. Se, in altre questioni similari, il tema attiene allo spazio di rappresentanza garantito all’interno dell’Unione, per quelle realtà dell’ebraismo non ortodosso e organizzato che richiedano un’interlocuzione con l’ente esponenziale[45], il caso di specie pare concentrarsi sulla possibilità di considerare legittima una rappresentanza comunitaria alternativa e distinta dalla stessa Unione. Rileva ancora una volta autorevole dottrina come, nella realtà delle grandi città italiane, le Comunità (come tali intendendo quelle proprie e afferenti all’Ucei) non costituiscono le sole realtà ad esercitare attività di religione e di culto, essendo presenti sinagoghe e centri culturali, solitamente gestite da gruppi autonomi di natura immigrata, che perseguono lo scopo della conservazione delle tradizioni, anche rituali, dell’ebraismo dei paesi di origine[46]. Un pluralismo interno che si somma a quello proprio delle correnti riformate, che mette a dura prova la tenuta esclusivista dell’Unione, che continua, tuttavia, a costituire ai sensi della legge, l’unica realtà collettivamente rappresentativa dell’ebraismo italiano.
Il problema pertanto, non pare solo nominale e cioè legato alla possibilità che realtà esterne all’Ucei utilizzino il riferimento al termine Comunità ebraica. Esso comprende il problema di quali elementi siano effettivamente necessari per definire una comunità ebraica e se tali elementi vadano ricercati esclusivamente nella tradizione ortodossa. Si introduce, così, il terzo tema, che attiene alla stessa definizione di Comunità offerta dall’art. 18 della legge n. 101 del 1989 come «istituzioni tradizionali dell’ebraismo in Italia» e, in generale, ad ogni riferimento che l’intesa compia alla tradizione. Se, in tal senso, sembra possa definirsi, come effettivamente avviene entro l’ebraismo istituzionale italiano, ebreo il solo aderente alla corrente ortodossa e comunità ebraica le sole riconosciute come tali dall’Unione, il tema costituisce una questione di libertà religiosa, prima ancora che di modello di relazione tra Stato e confessioni religiose. Rispondente al dato legislativo proprio dell’Intesa, un tale principio si pone in discontinuità con l’idea del pluralismo interno che la dimensione unitaria dell’ebraismo italiano ha sempre voluto preservare[47]. Il mancato riconoscimento dell’ebraicità di soggetti non appartenenti alla corrente ortodossa costituisce, pertanto, un tema tanto attuale quanto doloroso.
- Osservazioni conclusive. Tra timide aperture e polarizzazioni reiterate.
In attesa di conoscere le determinazioni dell’Ucei in seguito alla pubblicazione della sentenza di merito del Tribunale di Catania, in data 2 aprile 2025 è stato reso pubblico il testo di un accordo sottoscritto congiuntamente dall’Unione delle comunità ebraiche in Italia e dalla Federazione italiana dell’ebraismo progressivo, che mostra più di un profilo di interesse per le questioni fin qui analizzate[48]. Il documento è strettamente connesso alla questione della richiesta, avanzata nel 2018 da parte dell’ebraismo progressivo italiano, del riconoscimento di un proprio rappresentante quale osservatore entro il Consiglio, ai sensi dell’art. 41, comma 8, dello statuto Ucei.
Di tale richiesta si è già accennato, con riferimento alla questione della rappresentatività dell’Ucei e dell’opportunità che essa si faccia portatrice anche di istanze diverse dalla corrente ebraica ortodossa[49]. Il documento consiste in un piccolo, ma importante passo avanti in tal senso. Nella formulazione tipica dell’accordo tra le parti, esso si compone di una lunga premessa, tesa a ribadire ruolo e prerogative degli enti sottoscrittori. In tale ambito, l’Ucei richiama alle sue prerogative riconosciute all’art. 19 della legge n. 101 del 1989 e, pertanto, alla sua natura di ente rappresentativo della confessione ebraica nei rapporti con lo Stato e per le materie di interesse generale dell’ebraismo. Del pari, il richiamo delle disposizioni dello Statuto dell’ebraismo italiano rimarca le competenze istituzionalmente attribuite all’Unione, tra cui la rappresentanza e la tutela delle Comunità. Della Federazione italiana dell’ebraismo progressivo emerge il solo orientamento liberale e riformato e l’adesione alle rispettive federazioni europee e mondiali. La premessa dell’accordo dà atto della richiesta avanzata dalla Federazione nel 2018 e dell’inizio, a partire dal 2019 di incontri di delegazioni delle due parti mediante il “Tavolo di consultazione”, diretto ad analizzare le relazioni tra i due soggetti e la loro possibile collaborazione.
L’accordo, nello specifico, esprime la decisione di mantenere la realtà del Tavolo di consultazione e di svolgere incontri periodici per favorire coordinamento e sinergia intorno a temi di interesse comune. Tali sono le questioni che riguardano la libertà religiosa nella dimensiona nazionale e comunitaria, l’antisemitismo, la sicurezza. L’Ucei assume inoltre il compito di invitare un rappresentante della Federazione alle riunioni del Consiglio, con diritto di parola, ma non di voto, su temi di comune interesse non strettamente riservati al Consiglio. Entrambe le parti si impegnano a non assumere reciproci atteggiamenti polemici che possano danneggiare «l’ebraismo italiano nel suo complesso». Al contempo, la Federazione si impegna, per sé e per i soggetti associati «a distinguersi e definire nelle proprie comunicazioni e in ogni altra istanza come realtà ebraiche progressive, quindi distinte dalla Comunità ebraiche ortodosse dell’Ucei».
Il documento segna senza dubbio un passo avanti nelle reciproche relazioni, nel momento in cui pone al centro dell’accordo la volontà di reciproco ascolto e collaborazione su temi di interesse comune. In questo senso, pare poter dirsi che l’Ucei riconosca nella Federazione un ente rappresentativo e, pertanto, l’esistenza di un’accezione ampia dello stesso concetto di ebraismo. Ciò anche in considerazione del reciproco impegno a non assumere atteggiamenti lesivi dell’ebraismo italiano nel suo complesso, cui evidentemente non può non ricondursi anche l’esperienza progressiva.
Dall’altro lato, la richiesta di impegno accettata dalla Federazione pare molto netta nel non attribuire agli enti aderenti ad essa la qualificazione di Comunità, ma solo di una generica categoria di realtà ebraiche progressive. Ciò è corroborato dall’affermazione di netta distinzione dalle Comunità ebraiche ortodosse dell’Ucei. In questo senso pare vedersi un riferimento indiretto alle questioni affrontate dal Tribunale di Catania. La denominazione «Comunità ebraiche» è strettamente afferente all’Ucei, nella forma della tradizione ortodossa. Il dato sembra incontrovertibile e tale da non lasciare spazio ad altre possibili interpretazioni. Ciò a meno di non voler considerare tale distinzione esclusivamente mirata a prendere una posizione nei confronti dell’ebraismo progressivo, ma non di altre forme associative di tipo comunitario, come quella catanese. Tale interpretazione residuale pare peraltro del tutto recessiva di fronte alle stesse dichiarazioni dell’Ucei, successive alla pronuncia del Tribunale di Catania, evidentemente tese a disconoscere la riconducibilità dell’esperienza dell’associazione di Catania a quella dell’ebraismo ortodosso.
Il tema pare, pertanto, ancora del tutto polarizzato. Esso evidenzia le attuali difficoltà, ad oggi ancora insanabili, a veder realizzato quel pluralismo unitario che integra il mandato dell’Unione e che costituisce la forma privilegiata per l’attribuzione alla confessione religiosa ebraica nel suo insieme lo spirito rappresentativo di unità nella diversità che costituisce sua aspirazione più profonda.
Ilaria Valenzi
[1] Così Stefania Dazzetti, La rappresentanza dell’ebraismo in Italia e in Francia, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1, 2009, p. 121.
[2] Per un inquadramento tematico, Giorgio Sacerdoti, L’intesa del 1987-89: ebraismo italiano e ordinamento dello Stato, in Rassegna Mensile di Israel, settembre – dicembre, 2009, vol. 75, n. 3, pp. 29-50.
[3] Analizza tali entità nella loro struttura e funzioni essenziali Giorgio Sacerdoti, L’Unione delle Comunità ebraiche italiane tra adesione all’ebraismo ortodosso e rappresentanza di tutti gli ebrei italiani: l’Intesa del 1987 è ancora attuale? in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 10, 2020, p. 100.
[4] Sul processo di creazione del Consorzio delle Comunità Israelitiche Italiane, Stefania Dazzetti, L’autonomia delle comunità ebraiche italiane. Leggi, intese, statuti, regolamenti, Giappichelli, Torino, 2008, p. 14-33. In particolare, lo strumento legislativo utile ai fini della determinazione della forma consortile è rinvenibile nell’art. 27 della legge 4 luglio 1857, n. 2325, che prevedeva la realizzazione di consorzi per la gestione delle spese di comune interesse e per la copertura delle spese per le Università israelitiche prive di sufficienti mezzi.
[5] Gianni Long, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica». Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Il Mulino, Bologna, 1991, p, 141, descrive la diversità di posizione giuridica delle università israelitiche negli stati italiani preunitari, tra associazioni volontarie con mero riconoscimento di fatto da parte delle autorità pubbliche e corporazioni di diritto pubblico, con piena autonomia amministrativa. Ai fini del presente contributo appare rilevante come la stessa autonomia amministrativa si articolasse nell’obbligo di adesione di tutti gli ebrei residenti, nella facoltà impositiva e nella gestione autonoma delle attività comunitarie.
[6] Così Gianni Long, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica», cit., p. 25, che espressamente si riferisce all’attività di concertazione delle parti come ad una sorta di intesa ante litteram. In realtà, già l’assetto della Legge Rattazzi fu raggiunto sulla base della partecipazione delle Comunità israelitiche piemontesi, incaricata nel 1848 la Comunità di Torino di predisporre un progetto di regolamento. Sul punto, Giulio Disegni, Considerazioni sulla storia e la natura giuridica delle comunità ebraiche, nel vol. Scritti in memora di Sergio Piperno Beer, Numero Speciale della Rassegna mensile Israel, settembre – dicembre, 1985, pp. 625 ss.
[7] Così l’art. 43 del regio decreto n. 1731 del 1930.
[8] in questo senso l’art. 4 del regio decreto n. 1731 del 1930, che espressamente prevedeva l’appartenenza di diritto alla Comunità di tutti gli israeliti con residenza nel territorio di essa.
[9] Così Stefania Dazzetti, La rappresentanza dell’ebraismo, cit., p. 126.
[10] Così Gianni Long, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica», cit., p. 141.
[11] Giorgio Sacerdoti, L’intesa del 1987-89, cit., pp. 29-30.
[12] In dottrina, in particolare, Giorgio Sacerdoti, L’ebraismo italiano davanti alla sentenza n. 239 del 1984 della Corte costituzionale e le prospettive di Intesa, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1984, p. 111 ss.; Nicola Colaianni, L’appartenenza di diritto alle comunità israelitiche tra legge, intesa e statuto confessionale, in Foro Italiano, 1984, I, pp. 2397 ss.; Francesco Finocchiaro, Libertà di associazione e Comunità israelitiche, in Giurisprudenza italiana, 1985, CXXXVII, I, sez. I, p. 557 ss.; Stefania Dazzetti, Per legge o per statuto. Appartenenza e autonomia nell’esperienza dell’ebraismo italiano contemporaneo, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2024, 2, p. 14.
[13] Così Nicola Colaianni, Confessioni religiose e intese, Cacucci, Bari, 1990, pp. 78-79; il principio ha trovato conferma anche nelle intese con altre confessioni religiose, come analizzato da Francesco Margiotta Broglio, Libertà religiosa e sistema di rapporti tra Stato e Confessioni religiose. Le “Intese” del 1986 con le Assemblee pentecostali e con le Chiese avventiste, in Rivista di studi politici internazionali, 1987, 4, pp. 539-561; Pasquale Lillo, Dimensione pubblica delle religioni nelle società civili contemporanee, in Diritto e religioni, 2019, 2, pp. 52-67; sullo specifico delle confessioni religiose entro la più ampia categoria delle formazioni sociali, Maria D’Arienzo, Confessioni religiose e comunità, nel vol., Mario Tedeschi, Comunità e soggettività, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2006, pp. 279-292.
[14] Così Corte Cost., sentenza n. 239 del 1984, in Foro italiano, I, 1984, coll. 2397 ss.
[15] Così Stefania Dazzetti, ibidem.
[16] Così l’art. 1 dello Statuto denominato, con particolare rilevanza entro l’economia di questa riflessione, «dell’ebraismo italiano».
[17] L’elemento è così risultante anche dal sito web dell’Associazione, che specifica peraltro l’afferenza della Comunità Ebraica al rito ortodosso sefardita. Alla nascita dell’Associazione si riconduce, peraltro, la riapertura, nel 2022, della storica Sinagoga nella sede del Castello di Leucatia, concesso nel 2017 dal Comune alla richiamata Associazione.
[18] Sembrerebbe, cioè prospettarsi una questione di tutela del diritto al nome di cui all’art. 7 Cod. civ., ovvero ancora di tutela del marchio o denominazione collettiva e cioè dei diritti della personalità dei gruppi organizzati, come «tutela dell’identità e dell’organizzazione metaindividuale e dell’identificabiltà del centro di imputazione di situazioni giuridiche», come analizzato in Andrea Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), in Rivista di diritto civile, 48, 2002, pp. 851-893, qui p. 876.
[19] La nota è consultabile sul sito dell’Ucei al seguente link: https://www.ucei.it/wp-content/uploads/2025/02/Costituzione-Comunita-Ebraica-a-Catania-Commento-UCEI-e-CEN.pdf.
[20] Il rapporto tra Halacha e identità ebraica è recentemente al centro di diverse riflessioni in ordine all’adattamento del sistema di legge tradizionale con le sfide della contemporaneità. Tra gli altri, si veda, Bianca Gardella Tedeschi, Jewish Feminism e Orthodx Judaism negli Stati Uniti: la ricerca dell’armonia, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 21 (speciale), 2018, pp. 135-154; Enrica Martinelli, Alcuni spunti di comparazione tra diritto italiano e diritto ebraico in tema di maternità surrogata, nel vol. Maria D’Arienzo, Diritto come scienza di mezzo: studi in onore di Mario Tedeschi, Pellegrini editore, Cosenza, 2018; pp. 1583-1599; Ead., Ebraismo e modernità di fronte alla pandemia da SARS-COV-2, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, fascicolo speciale, 2021, pp. 165-186; in senso più ampio, Giuseppe D’Angelo, Nicola Fiorita, L’ebraismo nell’Europa che cambia: costanti, variabili e prospettive giuridiche, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1, 2009, pp. 93-120.
[21] Così l’art. 18, primo comma, della legge n. 101 del 1989.
[22] Così, più recentemente, Giorgio Sacerdoti, L’Unione delle Comunità ebraiche italiane tra adesione all’ebraismo ortodosso e rappresentanza di tutti gli ebrei italiani: l’Intesa del 1987 è ancora attuale?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 10, 2020, pp. 100-127.
[23] Si veda la dichiarazione del Vice presidente Ucei Giulio Disegni, pubblicata sul portale Moked in data 11 dicembre 2023 e consultabile al seguente link: https://moked.it/blog/2023/12/11/catania-nasce-nuova-sezione-comunita-di-napoli-giulio-disegni-ucei-segnale-di-rinascita/
[24] Così la dichiarazione del Vice presidente Disegni del 6 febbraio 2025, pubblicata sul portale Moked e consultabile al seguente link: https://moked.it/blog/2025/02/06/catania-disegni-ucei-istituzione-comunita-ebraica-e-regolata-da-intesa/
[25] La pronuncia espressamente riporta la definizione di comunità nella specifica accezione confessionale, indicando come esempi le prime comunità cristiane, le comunità israelitica cittadina, la comunità di base. Così, Trib. Catania, p. 2.
[26] Già Gianni Long, come indicato nella nota 10. L’A. articola come, con riferimento al contesto italiano del periodo unitario, alle comunità storicamente riconosciute si aggiunsero comunità nate su base volontaria, solo in senso lato riferibili all’idea stessa di comunità per come era andata allora costruendosi. Si trattava, cioè di enti che curavano globalmente i diversi aspetti della vita comunitaria e non soltanto quelli spirituali. La questione verrà poi sussunta nel regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731 all’art. 2, che riportava un’ampia elencazione di differenti tipi di organizzazioni ebraiche, distinguendo, ad esempio, tra comunità, società e associazioni israelitiche. Si veda, inoltre, Dante Lattes, La comunità ebraica, in La rassegna mensile di Israel, 11-12, 1978, p. 673, ove si legge che «La Comunità è la forma concreta e storica della solidarietà e dell’unità ebraica, è lo strumento e il simbolo di continuità di vita della gente di Israele ovunque si trovi».; inoltre, Stefania Dazzetti, L’autonomia delle comunità, cit.
[27] Si veda, in argomento, Ariel Di Porto, Globale ma unico. Le sfide della globalizzazione per il popolo ebraico, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1, 2022, pp. 1745-188, a partire dal dato di realtà che ha visto il popolo ebraico affrontare, tra i primi, la realtà della dispersione globale e che ha dovuto confrontarsi sin da subito con le domande con cui oggi l’umanità è chiamata a relazionarsi, con riguardo, in particolare, alla conservazione della propria identità di minoranza. Non privo di significato a tal fine l’attribuzione alla Torà di un valore riconosciuto da tutti gli ebrei, strumento, pertanto, per accogliere, nel contesto del mondo ebraico, il concetto di diversità entro la manifestazione di una cultura religiosa unificata.
[28] Tra gli altri, Giulio Disegni, Considerazioni sulla storia e la natura giuridica delle comunità ebraiche, nel vol. Scritti in memoria di Sergio Piperno Beer, Numero speciale della Rassegna mensile di Israel, settembre -dicembre 1985, p. 625 ss.; Mario Falco, la natura giuridica delle comunità israelitiche italiane, nel vol. Studi in onore di Francesco Scaduto, I, Poligrafica universitaria, Firenze, 1936, p. 299 ss.
[29] Nel riferirsi alla dottrina che analizza la regolamentazione totalmente per legge delle comunità, «concretandosi, così, una sorta di “costituzione civile” di confessione religiosa ad opera del legislatore statale», la sentenza si riferisce alla nota formulazione di Arturo Carlo Jemolo, Alcune considerazioni sul R.D. 30 ottobre 1930 n. 1731 sulle Comunità israelitiche, in Il Diritto ecclesiastico, 2, 1931, p. 75.
[30] Il riferimento è alla già richiamata sentenza n. 239 del 1984 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4 e 36 del regio decreto 30 ottobre 1930, n. 1731.
[31] Corte costituzionale, 23 maggio 1990, n. 259.
[32] Tra gli altri, Stefania Dazzetti, Le comunità ebraiche italiane alla prova del pluralismo interno, nel vol., Mario Tedeschi, Comunità e soggettività, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2006, pp.539-563.
[33] Così Giorgio Sacerdoti, L’Unione delle Comunità ebraiche italiane, cit., p. 103 ss.; Guido Fubini, L’ebraismo nelle legislazioni europee, in La rassegna Mensile di Israel, 69, 3, pp. 99-128.
[34] Tra i molti, David Sorkin, Is American Jewry Exceptional? Comparing Jewish Emancipation in Europe and America, in American Jewish History, Johns Hopkins University Press, 3, 2010, pp. 175-200; Yossi Shain, American Jews and the construction of Israel’s Jewish Identity, in Diaspora: A Journal of Transnational Studies, 9.2, 2000, pp. 163-201; David Philipson, The reform movement in Judaism, Wipf and Stock Publishers, Eugene, Oregon, 2021.
[35] Numerosi i riferimenti, sul punto, con riferimento ai modelli di integrazione religiosa in Francia, così come della tutela dei tratti identitari dell’ebraismo francese. Si veda Martine Choen, Les Juifs de France. Affirmations identitaires et évolution du modèle d’integration, in Le Débat, 3, 1993, pp. 97-110; Ead., Fin du franco-judaïsme? Quelle place pour le Juifs dans une France multiculturelle? Presses Universitaires de Rennes, 2022;
[36] Guido Fubini, La condizione giuridica dell’Ebraismo italiano: dal diritto di essere come gli altri al dovere di essere diversi, in La rassegna mensile di Israel, 39, 1, pp. 34-45.
[37] Sul punto, Stefania Dazzetti, Libertà e identità dell’ebraismo italiano nel contributo di Guido Fubini, in La rassegna mensile di Israel, 77, 3, 2011, pp. 7-16.
[38] Guido Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano: dal periodo napoleonico alla Repubblica. Seconda edizione riveduta e ampliata,Rosenberg & Sellier, Torino, 1998.
[39] Così Giuliano Amato, Le intese e la loro lezione, in La rassegna mensile di Israel, settembre – dicembre, 2009, p. 3 ss.
[40] Così all’art. 1 dello Statuto dell’ebraismo italiano, che richiama anche all’organizzazione delle Comunità secondo la legge e le tradizioni ebraiche.
[41] Così all’art. 18 della legge n. 101 del 1989, che si riferisce alle Comunità come istituzioni tradizionali dell’ebraismo italiano.
[42] Così Carlo Cardia, Giorgio Sacerdoti, Introduzione, in La rassegna mensile di Israel, settembre – dicembre, 2009, p. 7 ss.
[43] Cfr. Giuseppe Laras, Comunità ebraica: i caratteri e i rapporti con la società, nel vol., Mario Tedeschi, Comunità e soggettività, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza, 2006, pp. 427-432.
[44] esso tuttavia emerge, con maggiore chiarezza, dalle note dichiarative della stessa Ucei rilasciate successivamente alla sentenza e precedentemente analizzate.
[45] Così per la richiesta dell’ebraismo riformato di assumere il ruolo di Osservatori all’interno del Consiglio dell’Unione. Sul punto, in senso positivo, Giorgio Sacerdoti, cit., pp. 123-127.
[46] Così Giorgio Sacerdoti, cit., p. 107-108, in evidente continuità con quanto sostenuto da Fubini diversi anni prima.
[47] Così Giorgio Sacerdoti, cit, che rileva l’essenzialità di una rappresentanza non frammentata dell’unica confessione religiosa ebraica.
[48] Il testo del documento è consultabile sul sito web della Federazione italiana dell’ebraismo progressivo e al seguente link: https://www.fiepitalia.it/comunicati-stampa/accordo-ucei-fiep/
[49] L’ammissione dell’ebraismo riformato nel ruolo di osservatore in seno al Consiglio non pare, nell’opinione di Giorgio Sacerdoti già richiamata, intaccare il funzionamento delle Comunità, né un’influenza possibile sulle decisioni della stessa Unione, stante il ruolo attribuito dallo Statuto all’osservatore, dotato di diritto di parola, ma non di voto. Inoltre, si rileva, il ruolo di osservatore è limitato dalla norma propria dell’art. 42 dello Statuto alle sole riunioni del Consiglio e non anche alle altre attività dell’Unione.