NEWSLETTER 3/2024
NEWSCITTA’ DEL VATICANO Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» del Sommo Pontefice Francesco recante modifiche alla Legge sull’ordinamento giudiziario, alla Legge recante disposizioni per la dignità professionale e il trattamento economico dei magistrati ordinari del Tribunale e dell’Ufficio del Promotore di giustizia e al Regolamento Generale del Fondo Pensioni
La sentenza in oggetto nasce da una domanda di rinvio pregiudiziale concernente l’interpretazione dell’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea, del 13 dicembre 2011, in tema di protezione internazionale.
La domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia concernente il Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl, l’Ufficio federale per il diritto degli stranieri e il diritto di asilo in Austria (d’ora in avanti BFA), ed un cittadino iraniano, JF, il quale aveva contestato la legittimità del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato. Dopo che il BFA respinge una prima domanda di protezione internazionale, JF inoltra una domanda reiterata, basata sulla sua successiva conversione al cristianesimo e sul conseguente rischio di essere perseguitato nel Paese d’origine. Il BFA, pur constatando che JF si è convertito “per intima convinzione” al cristianesimo e che pratica attivamente tale religione in Austria, rigetta nuovamente la richiesta di protezione internazionale in quanto, sulla base dell’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, del Bundesgesetz über die Gewährung von Asyldel 2005 (legge federale in materia di concessione del diritto di asilo), il rischio di persecuzioni è stato determinato dal richiedente stesso in seguito alla sua successiva conversione ad altra religione. JF propone ricorso dinanzi al Bundesverwaltungsgericht (Tribunale amministrativo federale), il quale lo accoglie, constatando la mancanza di condotta abusiva da parte del richiedente. Il BFA propone ricorso dinanzi alla Corte amministrativa austriaca, giudice del rinvio, ritenendo che il testo dell’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, dell’Asylgesetz 2005 introduca come regola generale il diniego dello status di rifugiato ai richiedenti che abbiano essi stessi determinato, nello Stato membro ospitante, le circostanze all’origine del rischio di persecuzioni, a meno che tali attività siano in Austria e costituiscano l’espressione e la continuazione di convinzioni già manifestate nel Paese d’origine.
Il giudice del rinvio ha conseguentemente sollevato questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea chiedendo se l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale che subordini il riconoscimento dello status di rifugiato, fondato su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze che il richiedente stesso ha determinato dopo la partenza dal Paese d’origine, alla duplice condizione che tali circostanze rientrino tra le attività consentite nello Stato membro interessato e costituiscano l’espressione e la continuazione di una convinzione del richiedente già manifestata nel Paese d’origine.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha innanzitutto effettuato una interpretazione letterale della disposizione oggetto di rinvio, con riguardo alle espressioni «in particolare» e «di norma» impiegate nel testo[1]. In primo luogo, il fatto che il paragrafo 3 dell’articolo 5 della direttiva consenta agli Stati membri di rifiutare «di norma» lo status di rifugiato alle condizioni indicate dalla disposizione non esclude che, ciò nonostante, un richiedente possa comunque ottenere il riconoscimento di tale status. In secondo luogo, l’utilizzo dell’espressione «in particolare», riferita alla possibilità di riconoscere lo status di rifugiato quando le attività all’origine del rischio di persecuzione – come nel caso di specie la conversione ad altra religione –, successive alla partenza, costituiscano espressione e continuazione di convinzioni od orientamenti già manifestati nel Paese d’origine, non esclude che attività che non costituiscano tale espressione o continuazione possano comunque, in linea di principio, essere invocate nell’ambito di una domanda di protezione internazionale.
Pertanto, la Corte di Giustizia ha affermato che la deroga prevista dall’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva, oltre a dover essere interpretata restrittivamente, è diretta a sanzionare un’intenzione abusiva del richiedente, nel caso in cui abbia “costruito” le circostanze alla base del rischio di persecuzione. Ciò va verificato attraverso un esame completo di tutte gli elementi del caso, senza che gli Stati membri possano introdurre alcuna presunzione di abusività per il solo fatto di trovarsi in presenza di una domanda reiterata di protezione internazionale.
Tuttavia, il punto chiave dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia si può individuare nei passaggi successivi, in cui essa ha sostenuto che, laddove venga accertata una condotta abusiva del richiedente, in ogni caso interviene la clausola contenuta nell’articolo 5, paragrafo 3 della direttiva, che fa salva la Convenzione di Ginevra, la quale, all’articolo 33, paragrafo 1 prevede che nessuno Stato contraente possa respingere un rifugiato verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa, in particolare, della sua religione.
Valorizzando il ricorso ai principi cogenti del diritto internazionale, quale è quello del non-refoulement, la Corte di Giustizia ha precisato i confini di tutela del richiedente protezione internazionale con un’esegesi che fornisce un ampio ombrello protettivo a tutti coloro che rischiano di subire persecuzioni, a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione, nel Paese d’origine.
Brigitta Marieclaire Catalano
[1] L’articolo 5 della direttiva 2011/95 prevede che una richiesta di protezione internazionale, fondata sul timore di essere perseguitato nel Paese d’origine, possa essere accolta anche se tale timore si basa su avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente dal Paese d’origine e anche quando tali avvenimenti consistano in attività svolte dal richiedente stesso successivamente alla sua partenza, in particolare quando sia accertato che tali condotte siano espressione e continuazione di convinzioni già manifestate nel Paese d’origine. Al paragrafo 3, è rimessa agli Stati membri la possibilità di rifiutare di norma il riconoscimento dello status di rifugiato se il rischio di persecuzioni, posto alla base della domanda successiva, sia fondato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal Paese d’origine, fatta salva la convenzione di Ginevra.