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Il manifesto delle Olimpiadi di Parigi del 2024 è stato disvelato al pubblico il 4 marzo: riassume 47 sport e 40.000 persone, rappresentando una panoramica dei più famosi monumenti parigini, ed anche la Marina di Marsiglia, ove si svolgeranno le gare olimpiche di vela. In un tripudio di colori, ecco la Tour Eiffel, il Grand Palais, il Trocadéro, lo Stade de France, l’Arc de Triomphe… e les Invalides, la cui cupola brilla nel cielo di Parigi anche nei giorni senza sole.
Il complesso des Invalides ospita, oltre alla tomba di Napoleone, anche la chiesa di Saint-Louis des Invalides - dichiarata cattedrale nel 1986 ed assegnata all’Ordinariato militare di Francia -, la cui cupola è stata raffigurata senza la croce alla propria sommità, come pure senza le quattro statue raffiguranti le tre virtù teologali e la virtù della religione.
Dato il rapporto particolarmente complesso e costantemente appassionante che hanno i Francesi con i simboli religiosi e la laïcité, è divampata subito la polemica.
Da un lato c’è chi ha difeso la libertà d’espressione artistica dell’autore, che ha raffigurato tutti i monumenti di Parigi ripresi in modo difforme dalla realtà, come ad ex. la Tour Eiffel rosa, il métro che passa sotto l’Arc de Triomphe, sicché l’assenza della croce dalla cupola del Dôme des Invalides non può essere ritenuta come contenente chissà quale messaggio nascosto, ma soltanto un fenotipo dell’interpretazione che l’artista ha voluto fare della Parigi olimpica.
Dall’altro lato, però, è stato replicato che se dipingere di rosa la Tour Eiffel, come Duchamp nella Gioconda con i baffi, non ne snatura l’essenza, eliminare la croce sulla cupola des Invalides (che è lì da Luigi XIV), significa snaturare l’edificio e, soprattutto, la storia della Francia.
Nelle intenzioni probabilmente c’era quella dell’inclusione, ma togliere i simboli non significa includere, bensì non rispettare la storia della nazione e le radici storico-culturali della Francia.
L’intento d’inclusione non può ottenersi negando le proprie radici e nascondendo la propria identità.
Stefano Testa Bappenheim